venerdì 21 ottobre 2011

Nata nell'89 intervista I Cani

In occasione della doppia data de I Cani al Covo Club di Bologna ho pensato di fare una chiacchierata con il titolare della band. Ho chiesto di svolgere però il divertente compito a una ragazza nata nell'89, Elena "Infetta" Mariani. Contavo in una intervista a mente fredda, a distanza dal boato dell'uscita dell'album, Il sorprendente album d'esordio de I Cani, rilassante come una sosta lungo l'autostrada del sole, nel mezzo di questo primo tour del gruppo romano, molto atteso in tutta la nazione. In realtà la nostra Infetta è un peperino e, nonostante le mie raccomandazioni, alla fine il dibattito l'ha accesso. Ma lascio a lei la parola...


De I Cani ho sentito parlare la prima volta nel luglio 2010, proprio prima delle vacanze. Scaricai "I pariolini di 18 anni" dalla compila di Rockit.it ed impazzii dal primo istante. Questo è il mio inizio, ma è un po' quello di tutti i fan de I Cani. 
I Cani sono diventati la band più ricercata ed acclamata del web e dell'editoria italiana. Chi sono i Cani? Che mangiano 'sti Cani? Dove stanno 'sti Cani? Poi l'annunciazione. 
Come la luce che sprigionò l'Arcangelo Gabriele sul corpo vergine di Maria, I Cani si mostrarono al pubblico della domenica al Mi Ami Festival. Innumerevoli furono le interviste a I Cani: sulla loro musica, su ciò che li ispira, sui film, sulla letteratura, sul loro nome, etc etc. 
Così, quando Federico (compagno di merende su Vitaminic e sostenitore del mio stile ghetto-maccheronico) mi ha chiesto di pensare a una possibile mia intervista a I Cani, risposi candidamente "Io? Cosa dovrei chiedergli? Senza contare che sono del tanto odiato anno '89, voglio davvero sentirlo ringhiare?" 
Così, essendo la mia prima intervista, ho pensato di prenderla da pari. Da esordiente ad esordiente, da citazionista a citazionista, da osservatrice ad osservatore. 
Questo è quello che ne è venuto fuori:

- Io ero presente al vostro primo concerto al Mi Ami e mi è sembrato di far parte di un avvenimento speciale. La collinetta gremita di fans, i giovanissimi con scritto I CANI sulla fronte fatta con il pennarello nero, quelli più grandi che facevamo paragoni, i curiosi e gli storcianaso. Come avete vissuto quel primo momento di realtà come progetto musicale? Quando ti sei tolto il sacchetto dalla testa (momento che mi sono persa a causa del mio metro e mezzo scarso) c'è stato un boato di flash e risatine, ti sei sentito un po' come Justin al Super Bowl quando fa magicamente apparire il seno di Janet Jackson
Sinceramente in quel momento mi stavo solo cagando sotto terribilmente, visto che sono una persona abbastanza facile all'ansia e credo che quella situazione avrebbe agitato chiunque. Esibirsi per la prima volta di fronte a così tanta gente è abbastanza raro, in genere quello che succede è che un gruppo inizia a costruirsi una base di pubblico con i concerti e cresce piano piano, invece noi siamo partiti subito con un concerto "grosso". Le incognite tra l'altro erano tantissime sia a livello emotivo che tecnico. Mentre montavo il palco mi tremavano le mani. Quindi a dire il vero il momento in cui mi sono tolto la busta non me lo sono "goduto" particolarmente, ero solo terrorizzato, ma ricordo il piacere di riuscire a respirare liberamente.


- Oltre all'album, "sorprendente" è il modo con cui hai cercato di superare il problema "immagine del gruppo", celando cioè la tua identità. Permettimi di raccontarti un aneddoto. Quando avevo 16 anni ero innamorata di un mio amico, ma non volevo si sapesse. Ero solita disegnare le disavventure che mi succedevano e lui veniva sempre raffigurato con un sacchetto di carta in testa, perché non volevo che le mie amiche facessero domande. In realtà coprendolo ho ottenuto l'effetto contrario, cioè una grande curiosità. Al di là del patetismo dei miei 16 anni, direi che con voi è successa la stessa cosa, no?
Sì, è successa la stessa cosa e devo ammettere di essere stato ingenuo a 24 anni quanto tu lo sei stata a 16. Da una parte non me ne pento, perché l'idea di diventare un personaggio dell'indie italiano con migliaia di amici su facebook continua a terrorizzarmi, dall'altra mi rendo conto che in questo modo ho aumentato la curiosità e dato uno strumento in più a chi mi vuole insultare: un fenomeno che mi inquieta abbastanza è che in molti degli insulti che sono girati su internet viene usato il mio nome e cognome, probabilmente proprio perché ho detto che è una cosa su cui mi sento vulnerabile.

- La trovata del sacchetto in testa, l'impossibilità di riconoscersi nell'immagine del cantante, ma solo nei testi, ha davvero sorpreso il pubblico. O meglio, ha sorpreso molto qui, in Italia, però in realtà la potenza del valore dell'anonimato lo ritroviamo in musica con i Residents, in letteratura con Thomas Pynchon e anche nella moda con Martin Margiela. Secondo te perché ha stupito così tanto? Ragionare sulla tua immagine mi porta a riflettere su un problema laterale della scena della musica italiana: secondo te perché, in Italia, i musicisti si ostinano a fregarsene dell'immagine? Perché non si riesce ad associare l'idea che la cura di un'immagine coerente aumenti la potenza del gruppo, della musica e del messaggio? Di che cosa ci si vergogna?
Riguardo alla storia dell'anonimato penso una cosa abbastanza cinica, ovvero che avuto come principale effetto collaterale "positivo" quello di dare qualcosa da scrivere ai giornali generalisti. Mi piace pensare che per il pubblico, invece, quello che abbia contato siano state le canzoni e che l'anonimato sia solo un aspetto incidentale. Per quanto riguarda i gruppi italiani, non ho l'impressione che curino poco l'immagine quanto che la curino male: raramente ci sono delle buone idee dietro, e ancor più raramente queste idee possiedono quell'insieme di radicalità e spontaneità che le rende funzionanti. D'altra parte non credo che l'immagine possa salvare un progetto musicale poco interessante, quindi credo che il problema nella maggior parte dei casi sia una scarsità di idee a priori.


- Sempre a quel famoso primo concerto, mi ricordo che ci si riferiva a te come il nuovo SILVIO MUCCINO della scena romana. Prima di vomitarmi addosso, riflettiamo sull'accaduto. Parlavamo ovviamente del primo Silvio Muccino, quello poco radical chic, che recitava in "Come te nessuno mai" che è un film che ha fatto scuola nel far capire le divisioni sociali tra gli adolescenti. Per esempio: io ricordo molto bene la scena in cui Silvio e Ponzo racchiudono, in un minuto e mezzo di girato, l'intera questione sul vestiario dei giovani a Roma. Una spiegazione facile e pulita. Ti senti un po' come Silvio e Ponzo in quel minuto e mezzo? Capace di raccontare una scena romana (ma che alla fine, con nomi diversi, è nazionale) che fa ridere e annuire chi ne è dentro e chiarire le idee a chi ne è completamente fuori?
Il merito di quella scena è che non tratta "i giovani d'oggi" come una massa informe di cui parlare in termini generici, ma fa lo sforzo di operare alcune distinzioni, per quanto si tratti di distinzioni abbastanza scontate per qualsiasi adolescente romano di quegli anni. Secondo me in generale riuscire a dire tre o quattro cose obiettive su un tema che si conosce bene (per quanto sia un tema "piccolo" come le mode degli adolescenti romani di fine anni '90) può valere molto di più del cercare di dare risposte definitive alle grandi domande universali (con il relativo rischio di dire banalità). Purtroppo molta cultura italiana invece ha la tendenza a fare questo polpettone melodrammatico in cui si mette dentro politica, esistenzialismo, passatismo e retorica dei buoni sentimenti. Io preferisco dire un paio di cose a proposito del mio quartiere di cui sono ragionevolmente certo.



- Parliamo di donne. Sei stato accusato di trattare il tema in maniera troppo superficiale e maschilista. Nei tuoi testi il gentil sesso si lamenta, sogna alla grande, indossa dei brutti vestiti di poliestere, si fa prendere in giro dal sesso maschile dandola al primo appuntamento e si lascia scappare frecciatine sull'ex. La ragazza del capo, la liceale musona, la ex spocchiosa, la barista gatta morta, ma soprattutto la hipster che si ostina a mettere vestiti a righe orizzontali. Insomma, ne usciamo davvero male: confuse, poco obiettive, mai leader e sempre gregarie. Sembra che le bustine da tè abbiano più carattere di noi, un modello ben lontano dal fiero "Who run the wolrd? Girls!", l'ultimo inno fierce di Beyoncè. Anni e anni di girl power e liberazioni sessuali, dal post-punk al pop da classifica, con il contributo dei video di Madonna e delle dive r and b che vogliono un uomo che paghi le loro bollette, e siamo ancora così subordinate? Può essere la grande influenza che ha il rap sulla tua scrittura? Quel modo sempre un po' rabbioso di trattare male la propria donna davanti agli amici mentre poi in casa ci si scusa e si mette su Marvin Gaye?
Questa domanda mi colpisce per due motivi. Il primo è che per quanto nei testi io abbia cercato di dire le cose nel modo più chiaro possibile, c'è ancora spazio perché si possano leggere in modo relativamente aperto: ad esempio io sono certo di non aver mai parlato di ragazze che la danno al primo appuntamento, perché proprio non è una categoria che mi interessava raccontare e non so neanche se esista. Ovviamente questo margine di ambiguità è inevitabile, però non cessa di stupirmi quando le persone mi dicono "Ah, quel pezzo in cui parli di (...)" e io mi chiedo "Ma quale?".
Il secondo motivo è che non sembri nominare (usando termini un po' crudi come quelli usati da te) i critici musicali frustrati, gli insegnanti di teatro che ci provano con le ragazzine, gli adolescenti ricchi che giocano a fare i teppisti, gli hipster con pretese di profondità che però snobbano le ragazze bruttine, i fidanzati passivo-aggressivi che fanno finta di niente e poi recriminano, eccetera eccetera. Non mi sembra che abbondino figure maschili dotate di grande forza, anzi. Tutto il disco parla di persone che non sono all'altezza delle proprie aspettative, che siano maschi o femmine.
Alla luce di questo vorrei farti io una domanda: è possibile che tu abbia letto il disco in modo un po' unidirezionale perché questo è un tema delicato per te?
Per quanto riguarda il discorso del rap ci tengo a fare una distinzione. Questo disco per me è profondamente imbarazzante e cantare queste canzoni per me è una roba difficile. Quando i rapper dicono cose "che non si devono dire" (maschiliste o razziste o omofobiche) affermano orgogliosamente un loro sistema di valori di cui fanno parte anche quelle cose. Ora, siccome io non chiedo alla musica di dirmi quello che devo pensare, ma semplicemente di farmi entrare nella testa di un'altra persona per qualche minuto, io apprezzo comunque questi rapper per la loro onestà, anche se i loro valori sono diversi dai miei (e comunque c'è la questione di quante quelle cose vadano intese letteralmente). Io invece non sto affermando orgogliosamente delle cose, sto raccontando quello che mi mette in difficoltà. E' per questo che dal vivo non riesco interpretare la parte del cantante indie italiano eroe romantico maledetto ma dal cuore d'oro con la voce impostata (anche perché non ne sono capace). Mi sento un mostro e voglio suonare come tale.


- Sempre parlando di rap, a volte sembra che in Italia sia inteso solo come copertura per modelloni pompati e tatuati, quando in verità ci sono artisti validissimi. Basta pensare a Dargen D'Amico, che ha dato alla luce un album gradevolissimo e maturo, o a Noyz Narcos, capace di descrivere la realtà in maniera molto cruda ma convincente. Il lavoro del rapper è un lavoro difficile, i testi sono fondamentali e a quello che dicono, se un rapper è bravo, ci credi perché suonano reali. Però se qualcuno pubblica notizie o recensioni di musica rap c'è sempre qualcun altro pronto a relegarla a "musica per bimbiminkia". Perché l'Italia della musica indipendente, delle etichette fatte in casa, quella delle belle parole, non ci crede?
Prima di tutto mi sembra che la situazione, grazie a Dio, stia cambiando: mi capita sempre più spesso di sentire esponenti della musica indipendente che dichiarano di apprezzare il rap italiano e trarne ispirazione. Purtroppo al tempo stesso è vero che come dici tu c'è ancora molta resistenza. Credo che il problema sia culturale, ovvero che per apprezzare un artista bisogna in qualche modo dare credito al suo immaginario. Ad esempio, per apprezzare De André, io devo immaginare questo mondo fatto di puttane nei vicoli, assassini che incontrano pescatori buoni, bestemmiatori profondi, e via discorrendo. Il punto non è se questo mondo esiste, dove esiste, come esiste, ma se istintivamente lo trovo vero e mi comunica qualcosa. Per qualcuno è così, per qualcun altro è ridicolo. Secondo me molti ascoltatori di indie hanno molta difficoltà a dare credito al mondo dei rapper (fatto di "ghetto", spaccio, crews, etc.) perché è troppo lontano sia da quello che vivono tutti i giorni, sia da quello della musica che ascoltano normalmente. Fino a che non si fa lo sforzo di entrare in quell'immaginario, non si riesce a prendere sul serio il rap, e finché non si prende sul serio il rap è inutile ascoltarlo.

[Se siete arrivati alla fine della lettura e non ne avete abbastanza, oggi alle 15.30 sintonizzatevi su Città Del Capo Radio Metropolitana: I Cani saranno graditi ospiti del sottoscritto e di Francesco Locane ai microfoni di Maps!]

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